
Il 1916 fu un anno di grande incertezza in Europa. Nessuno dei due contendenti del Primo Conflitto Mondiale era riuscito a sferrare all’avversario un colpo decisivo, né si era raggiunto un coordinamento fra le nazioni alleate che si fronteggiavano.
Nei primi mesi dell’anno i tedeschi, nella loro offensiva a Verdun, avevano utilizzato molti uomini e materiali, costringendo i francesi a chiedere offensive locali agli alleati per alleggerire gli sforzi. Gli Italiani avevano risposto impegnandosi nella quinta battaglia dell’Isonzo senza però avere alcun obiettivo strategico.
Gli austroungarici non tardarono a farsi sentire con la “Strafe Expedition”, una spedizione punitiva volta a rompere il fronte trentino e ad aprire la strada della Pianura Padana, costringendo l’esercito italiano a retrocedere nel Veneto.
Il Generale Luigi Cadorna, accortosi che l’azione nemica era ormai in via di esaurimento senza aver colto gli obiettivi strategici, impartì le disposizioni di massima alla Terza Armata per la Battaglia di Gorizia. Già nel mese di giugno, in segreto, alcuni uomini stavano sguarnendo il fronte trentino, coinvolto nel contenimento dell’ultima fase dell’offensiva austroungarica, per convergere nelle retrovie della Grande Unità scelta per l’azione.
La prima fase
L’offensiva italiana prevedeva una grande concentrazione di uomini, allestita proprio per l’occasione.
Il VI Corpo D’Armata era inizialmente articolato in 4 divisioni di fanteria: la 45^, composta da Brigata Toscana, Brigata Trapani e Brigata Campobasso, la 24^, composta da Brigata Abruzzi e Brigata Lambro, l’11^, composta da Brigata Cuneo e Brigata Treviso e la 12^, composta dalle più famose Brigata Casale e Brigata Pavia.
Le divisioni erano comandate dal Generale Capello, che diede ordine di proseguire l’azione in profondità per spezzare la Quinta Armata del Generale Boroevic e, infine, ripiegare su Trieste.
Il movimento delle Brigate sarebbe stato sempre preceduto e accompagnato dall’artiglieria che avrebbe aperto la strada e, allo stesso tempo protetto, i fanti.
Ad ogni divisione venne assegnato un passaggio strategico per superare l’Isonzo ed entrare in città: alla 45^ il Monte Sabotino, alla 24^ Oslavia, all’11^ l’abitato di Grafenberg e l’attacco del Podgora e del Monte Calvario, da condurre assieme alla 12^.
Il 6 agosto l’artiglieria italiana iniziò a fare fuoco sui posti di comando, gli osservatori e le trincee di un attonito esercito austriaco che non si aspettava una risposta così veloce e violenta subito dopo la spedizione punitiva.
Nel pomeriggio, come previsto, partirono all’attacco le fanterie che ottennero risultati diversi. Mentre sul Sabotino gli obiettivi assegnati vennero raggiunti in meno di un’ora, al centro l’esercito austriaco ostacolò massicciamente le operazioni. A sud, dopo la prima giornata di combattimenti, per opera delle Brigate Catanzaro, Brescia e Ferrara cadde facilmente in mano italiana il Monte San Michele.

Proprio nei combattimenti a seguito della presa del Monte morì da eroe il bersagliere volontario Enrico Toti.
La reazione austroungarica
La sera del 6 agosto, per gli Austriaci, la situazione sembrava parecchio difficile, anche se non del tutto persa. Durante la notte ci furono attacchi continui su tutta la linea ma, salvo successi localizzati nella zona di Oslavia, vennero contenuti e successivamente respinti.
Il generale Zeidler chiese ed ottenne di abbandonare la testa di ponte e, nella notte dell’8 agosto, i reparti austriaci, distrutti gli 8 ponti costruiti in precedenza, si ritirano sulla riva sinistra dell’Isonzo.
Lo sforzo italiano
Il VI Corpo d’Armata italiano schierò la 43^ divisione e, la sera dell’8 agosto, dopo giorni di combattimenti estenuanti e logoranti, fatti di contrattacchi, respinte e rastrellamenti, raggiunse finalmente le sponde dell’Isonzo.
Il Generale Capello, intuito il momento propizio e l’evidente stanchezza e difficoltà dei nemici, incitò i suoi comandanti a proseguire l’azione e a raggiungere i monti nella parte orientale di Gorizia. La pressione italiana risultò insostenibile per gli austriaci che decisero di abbandonare la Città e di ripiegare su posizioni più organizzate come il San Gabriele e il Monte Santo.
Il sottufficiale Aurelio Baruzzi ottenne il permesso di attraversare a nuoto l’Isonzo, portandosi dietro una bandiera italiana. Raggiunta l’altra sponda issò la bandiera nei pressi della stazione ferroviaria, decretando così la conquista di Gorizia da parte dell’esercito italiano.
Il morale era, ovviamente, alle stelle: si trattava della prima vera e tangibile vittoria dopo 15 mesi di guerra. Il Comando Supremo ordinò di continuare l’attacco per raggiungere anche la seconda linea difensiva alle spalle della città. Borojevic aveva già ordinato la ritirata più ad est, sul Vallone, prevedendo che l’esercito non sarebbe riuscito a mantenere il controllo sulla città isontina.
Il 17 agosto le operazioni vennero definitivamente sospese e le celebrazioni coinvolsero non solo la popolazione ma anche i soldati che, dopo oltre un anno di guerra, potevano finalmente gioire.
A livello militare però la realtà era più cruda: si trattava di un avanzamento di 5 km su un fronte di 25 che costò la perdita di circa 100 mila uomini in 10 giorni di combattimento.
La Prima Guerra Mondiale fu, in generale, molto difficile e impegnativa non solo sul piano fisico e strategico ma soprattutto su quello mentale.
Una guerra definita di “trincea”, in cui i soldati mantenevano anche per lunghi periodi le proprie posizioni in battaglia, costantemente sotto gli attacchi dei cecchini nemici.
Quando un ufficiale fischiava l’attacco, i soldati partivano all’assalto con le baionette sui fucili: molti venivano sorpresi dall’artiglieria nemica, feriti e mutilati senza che nessuno potesse prestargli soccorso. Questi attacchi si rivelavano spesso inutili perché si subiva subito la controffensiva nemica, si combatteva e si moriva per pochi metri di terra spesso subito riconquistati. Chi tornava indietro rischiava di venire giustiziato per vigliaccheria.
La vita all’interno delle trincee era altrettanto terribile: le condizioni igieniche erano scarse, i vivi si trovavano a condividere lo spazio con compagni deceduti o sul punto di esserlo.
Gli orrori della guerra vengono ben descritti da Giuseppe Ungaretti, che proprio sul Carso ha prestato servizio militare documentando da protagonista le precarie condizioni in cui si trovavano i soldati.
Nella composizione intitolata “La Sagra di Santa Gorizia”, Vittorio Locchi si sofferma in particolare sulla presa della Città, descrivendola come un momento liberatorio per i fanti, stufi di passare le loro giornate immersi nel fango della trincea.
Si racconta del passaggio delle stagioni, vissuto sempre nello stesso luogo e dell’arrivo dell’estate che finalmente porta con sé anche l’attacco. In particolare, i versi che descrivono la corsa verso la Città sono pregni di un forte sentimento nazionalista e Gorizia è vista come una miracolosa apparizione che non solo chiude il componimento poetico, ma mette fine, per un po’, alla sofferenza della fanteria.
La presa dell’8 agosto 1916 rappresenta certamente una delle pagine più significative della storia di Gorizia che, dopo l’istituzione del Regno d’Italia, divvene uno dei maggiori centri dell’irredentismo.
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